I quattro appuntamenti
nell’ambito della Giornata del malato
hanno indicato una direzione:
tutta l’esistenza è scoperta di Dio negli altri.
«La Chiesa in uscita», tanto desiderata da Papa Francesco, esiste, è viva e noi l’abbiamo incontrata.
La XXXII Giornata Mondiale del malato, l’11 febbraio, è stata una grande occasione di novità e vita nella nostra comunità ecclesiale; forse non tanti se ne sono resi conto, ma chi c’era non ha avuto dubbi: il Signore non è ancora stanco di noi.
Non siamo andati lontano, abbiamo posto la nostra «tenda» fra le case degli uomini ed abbiamo aperto occhi ed orecchie; abbiamo ascoltato il cuore di alcune persone che si prendono cura di coloro che vivono le prove della vita, abbiamo asciugato le lacrime di chi soffre ed ha bisogno della cura delle altre persone.
Tutto questo davanti al Signore, nelle nostre chiese «pregando» la nostra vita.
Abbiamo vissuto la «Lectio Pauperum» in 4 diverse Zone pastorali della diocesi: a
Casumaro, nella Zona Renazzo-Terre del Reno, a San Camillo de’ Lellis, nella Zona Persiceto, a Santa Rita, nella Zona San Vitale fuori le Mura e alla Beata Vergine Immacolata, nella Zona Barca.
Si sono incontrati i curanti ed i curati; alcuni testimoni si sono offerti di raccontare le esperienze della loro vita: impegno e delusioni, amicizie e tragedie, guarigioni e sconfitte, solidarietà e solitudine, vita e morte. Un caleidoscopio di luci.
Dopo la necessaria sosta di silenzio e contemplazione per far riecheggiare la Parola nel nostro cuore, abbiamo dato spazio alle risonanze dei presenti.
È stato come assistere ai fuochi d’artificio!
Il silenzio dell’infermiera che consola con una carezza; la diagnosi di tumore che invade e distrugge la mente ancora prima del corpo; la paura di restare sola al letto del coniuge stremato dalla demenza; la passione per la vita che cresce assistendo i malati non in contatto con il mondo; il medico che si toglie il camice per stare accanto al figlio malato; la consolazione ricevuta da un familiare che porta il caffè in reparto per tutti gli operatori; la soddisfazione del paziente che, durante il lungo iter di terapia si sente chiamato per nome da tutti; il racconto di padri e madri che hanno accompagnato i figli in ripetuti ricoveri, fino alla fine.
Abbiamo vissuto la preghiera, il silenzio, l’ascolto profondo con gioia e sorpresa.
La Parola di Dio scritta nella vita degli uomini, ogni giorno, nel quotidiano, nei gesti che compiamo per dovere o per bisogno merita di emergere nel nostro vissuto ecclesiale.
Facciamo della Lectio Pauperum uno strumento per scoprire Dio nei luoghi della nostra vita: nei nostri condomini, nelle Case di Riposo, nell’Hospice, negli uffici, nelle parrocchie, nelle scuole, anche dove non ci aspettiamo una sua Rivelazione.
Non la fatica di trovare spazio e tempo per pregare, ma pregare la nostra vita senza più dualismo.
Magda Mazzetti
direttrice Ufficio diocesano
Pastorale della Salute
Ed ecco alcune testimonianze.
“La cura dei deboli, impegno per tutti” – da Magda e Olita Sante, infermiera:
«Quest’anno la Giornata mondiale del malato sarà celebrata in modo “forte”, con varie iniziative in diverse sedi, che intendono coinvolgere oltre ai malati, i loro parenti, i medici e il personale sanitario che se ne prende cura e tutti coloro che si occupano di cura delle persone
con difficoltà».
Chi parla è Magda Mazzetti, direttrice dell’Ufficio diocesano per la Pastorale della Salute, che assieme ad associazioni come l’Unitalsi, il Cvs e il Vai ha promosso le iniziative per la XXXII Giornata Mondiale del malato.
«Questa impostazione – spiega Mazzetti – è perché solo se facciamo l’esperienza della cura dei più deboli, scopriamo il bene che abbiamo dentro.
A 40 anni dall’enciclica “Salvifici doloris” di san Giovanni Paolo II, dobbiamo continuare a raccogliere il pressante invito della Chiesa a prenderci cura dell’uomo che soffre. Perché, come ci ha ripetuto quest’anno papa Francesco, la cura è il mezzo attraverso il quale ci avviciniamo non solo all’uomo, ma, in lui, al Signore».
E una testimonianza importante di cura ai malati e sofferenti ci viene da Olita Sante, infermiera dal 1993, sposata e madre di tre figli e catechista della parrocchia di Santa Rita.
«Per un breve periodo ho lavorato all’Ospedale Maggiore, in un reparto di Malattie Infettive, con pazienti affetti da Aids – ricorda – Dal 1994 sono al Sant’Orsola e dopo 10 anni di esperienza in Rianimazione Adulti, per esigenze familiari e di salute, ho chiesto un part-time e sono stata trasferita in un’area ambulatoriale».
«Inizialmente, dal punto di vista lavorativo e stato un trauma – prosegue – perché amavo l’”adrenalina” che l’attività in Terapia Intensiva mi dava, ma i pazienti erano, nella maggior parte dei casi, incoscienti, quindi mancava il rapporto personale e con il loro vissuto.
Quando invece ho iniziato a lavorare negli ambulatori, ho pian piano cominciato ad apprezzare il fatto di poter comunicare con i pazienti e mi sono accorta di quanto questo sia importante per loro».
«Al tempo stesso – dice ancora Olita – mi sono resa conto di quanto questi pazienti vengano poco considerati, tanto da essere chiamati “utenti”.
Negli ambulatori non si ha a che fare con pazienti allettati, di cui si hanno alcune informazioni in più , almeno per la storia clinica, ma
si incontrano molte persone, spesso accompagnate.
Però oltre al nome e cognome, alla data di nascita e al motivo per cui sono venuti, non si conosce altro.
Questi pazienti, invece, molto spesso hanno gli stessi bisogni di quelli ricoverati, vivono problemi inimmaginabili: solitudine, difficolta ad assumere le terapie domiciliari, presenza in famiglia di disabilità , difficolta economiche».
«Personalmente, incontro i pazienti per pochi minuti, eppure ho capito che non e il tempo a fare la differenza, bensì l’approccio che riserviamo loro – sottolinea Olita -.
Bastano un sorriso, una parola di conforto e questa gente si confida, si confronta, cerca e trova rassicurazione.
Alcune volte poi, mentre mi muovo lungo i corridoi dell’ospedale, vedo persone con lo sguardo smarrito, non capiscono dove devono andare, cosa devono fare; allora mi avvicino e chiedo se hanno bisogno di aiuto.
Cerco di non limitarmi a dare loro indicazioni, preferisco accompagnarli personalmente.
E provo una gioia immensa quando, con i loro ringraziamenti, mi fanno sentire come se avessi compiuto un gesto straordinario, mentre in realtà è così semplice».
«Ogni volta mi tornano in mente le parole del Vangelo – conclude -: quando per le persone accorse ad ascoltare Gesù giunse la sera ed arrivò l’ora di cena, egli non disse agli Apostoli: “Dite loro di andarsi a comprare da mangiare, che ognuno si arrangi”, ma “Voi stessi date loro da mangiare” (Lc 9, 10-17).
È a questo che siamo tutti chiamati, in prima persona: prenderci cura dei fratelli più piccoli. Non ho la presunzione di dire che sono in grado di farlo, ma, con l’aiuto dello Spirito Santo, “ce la metto tutta”».
Da un medico chirurgo del S.Orsola:
Sono un medico e lavoro come chirurgo presso l’Ospedale Sant’Orsola.
Ho scelto questa professione perché mi affascinava l’idea di potere aiutare le persone curandole.
Nella mia testimonianza di vita e di medico ho avuto la fortuna di avere come maestro, agli inizi della mia carriera, un professionista speciale, sia nell’umanità che nella fede, il dottor Piccinini, scomparso prematuramente.
Ho capito cosa vuol dire l’attenzione al malato sia nel corpo che nell’anima, considerandolo un’entità unica.
È facile concentrarsi sulla malattia tralasciando l’anima, un rischio umano in cui i medici normalmente si imbattono.
Aggiungo che, essendo un chirurgo, questo rischio è maggiore: l’intervento è riuscito bene, quindi, è tutto a posto.
Non è così, perché non siamo in grado di prevedere con certezza la riuscita di un intervento e neanche le sue conseguenze umane.
Giuseppe Moscati, nella sua splendida preghiera dice: «Fa, o Signore che io non dimentichi che oltre ai corpi, ho di fronte delle anime immortali».
Questo non significa che io devo occuparmi della cura delle anime, però devo ricordare che l’uomo è una creatura unica, amata, creata e voluta e per questo merita il più totale rispetto.
Non dimenticherò mai quella volta in cui un paziente disse: «io per il dottor Del Governatore sono sempre stato Mario e non mi sono mai sentito il paziente del letto 24.
Naturalmente per me la ricerca scientifica e la migliore cura sono sempre al primo posto nel trattare la malattia ma nel rapporto instaurato con i malati per me è ormai automatico immedesimarmi e pensare alla loro sofferenza come una prova a volte enorme da affrontare, penso però l’abbiano avuta non per sfortuna ma perché il Signore li ha scelti per qualcosa di più.
Spesso mi commuove il fatto che mi sia data la possibilità di aiutare i malati con le mie capacità, mi sento scelto da Dio per un grande compito e per questo mi sento amato.
Con i miei pazienti ed i loro cari cerco di non fare mai venir meno il dialogo, un sorriso, una carezza, tendo loro la mano per ascoltarli.
Sono attento alle parole che dico perché so che con esse posso ferire.
Quando diamo delle notizie brutte, ad esempio, occorre delicatezza e cuore.
In questi anni con molti pazienti sono nate bellissime amicizie e alcune hanno segnato profondamente la mia vita e quelle dei miei familiari.
Spesso fare il mio lavoro è una grande fatica fisica e mentale, perché consuma il corpo e l’anima.
Si vorrebbe sempre risolvere tutto ma non è semplice.
Proprio in quei momenti ripenso a tutto il bene che ho visto e ai rapporti nati attraverso il mio lavoro, allora ritornano il vigore e il desiderio di proseguire su questa strada.
Da Giovanna:
L’anno 2020 ha rappresentato una sorta di spartiacque fra me e me stessa.
Un anno in cui si è più volte spezzato il senso del tempo, creando in me la percezione di un “prima” e di un “dopo”.
A luglio 2020 è mancata mia madre Albertina di 99 anni. La morte di un genitore è da mettere in conto, ma morire in tre giorni per un grossolano errore commesso dal proprio medico di base, non lo avevo messo in conto. lo sono figlia unica ed i parenti maggiormente significativi sono tutti nelle Marche, in provincia di Pesaro.
Appena in tempo per accorgermi della realtà di essere rimasta sola, e, quattro mesi dopo, a novembre 2020, scopro di avere un tumore lobular: infiltrante al seno destro.
Il 16 febbraio 2021 sono stata sottoposta a mastectomia totale del seno destro con asportazione di 57 linfonodi ascellari.
Ho avuto la fortuna di essere accolta ad operazione ultimata, a casa di una cara amica conosciuta 35 anni fa, facente parte di un gruppo di spiritualità dehoniana. E’ stato un mese intenso, bello, in cui non mi sono sentita sola, ma accompagnata.
Con la prima PET scopro che il tumore ha già lasciato il luogo di origine per propagarsi nelle ossa.
Il tumore che ho è un tumore al seno metastatico con meta statizzazione alle ossa.
Lutto, tumore e tumore metastatico tutto insieme… ed io da sola!
Non ho retto il continuare a vivere in quella casa che aveva contenuto mia madre e, in maniera emotiva e confusa, vendo la casa di famiglia. Vado a vivere a Monghidoro nella mia seconda casa, all’altezza di 840 metri. Non riesco però ad affrontare un clima profondamente diverso da quello di Bologna. Troppo freddo… Un conto è essere a Monghidoro in estate, un conto è essere lassù in inverno…
Comprendo cosi che il mio cuore vuole vivere alla Barca, che da pensionata voglio essere disponibile per attività varie che vengono realizzate in Parrocchia. Potevo risparmiarmi un errato trasferimento e restare nella casa di famiglia? Guardato adesso: potevo farcela. Nel 2021 no.
Comunque nel momento in cui ho perso tutto, ho avuto la forza, la determinazione di ripartire e ho trovato stabilmente la presenza rassicurante del Signore.
Ho preso confidenza con l’animaletto che vive dentro di me, così ho chiamato il tumore metastatico che vive in me. Mi ha insegnato e mi sta insegnando il valore dell’essenzialità. Tante cose ad oggi non hanno più importanza… Il Signore è il mio orizzonte di grazia.
Ad oggi mi basta sapere che il Signore mi accompagnerà anche nei momenti più crudeli della malattia che in futuro dovranno arrivare.
Da sola non sarei capace di affrontare alcunché, con Lui vicino non ho paura di avvicinarmi progressivamente al ponte dell’arcobaleno.
Da Chiara:
Mi chiamo Chiara, ho 21 anni e 6 anni fa la mia vita è cambiata completamente.
Nel 2017 mi è stata diagnosticata una leucemia, poi un ciclo di cure di due anni e poi
tutto sembrava finito. Ma finito non lo è stato per nulla. Nel 2021 mi viene diagnosticato
un altro tipo di leucemia. Da lì altri 6 mesi di cure, con ricoveri di almeno 40 giorni
ciascuno, poi un mese a casa e poi il trapianto di midollo da donatore, un donatore molto
speciale: mio papà.
In quei giorni così tutti uguali, dentro a quelle stesse mura, ho potuto sperimentare tante
emozioni: confusione, rabbia, un pesantissimo senso di impotenza legato ad una paura,
paura di tutto. Paura dell’ignoto, paura di quello che oggettivamente nessuno può
controllare. E allora l’unica soluzione qual è? Affidarsi. Affidarsi alle cure, ai medici, agli
infermieri e a tutto il personale sanitario che per quei mesi e anni diventa la tua seconda
famiglia. Cerchi di aggrapparti ad ogni parola di conforto che possono darti, a quelle
certezze che la scienza può dare. Ti leghi a quei sorrisi spontanei che scambi mentre ti
prendono la pressione, ad una carezza fatta mentre auscultano il torace. Le piccole cose
diventano così grandi da poter riempire quelle giornate tanto vuote.
E poi un giorno mi sono lasciata sorprendere da una persona, nello specifico una ragazza,
Anna. Con Anna ci eravamo incontrate una volta nel Natale del 2017, lei appena entrata in
reparto, io in uno dei miei tanti ricoveri. Poi ci siamo perse, non ci siamo sentite per tanto
fin quando ci siamo rincontrate nel 2021, entrambe con una seconda diagnosi di quel
tipo. So che in questo momento magari penserete “che sfiga”, io invece penso “che
fortuna” perché l’amicizia con Anna è stata ed è una fortuna grandissima. Ci siamo
sostenute durante tutti i lunghi ricoveri, bastava una parola, un semplice sguardo, ci
capivamo al volo. Ognuna era la spalla su cui l’altra poteva piangere ma era anche lo
specchio della felicità dell’altra. Se sapeste quante ne abbiamo combinate con Anna in
reparto: il grande fratello visto fino all’una di notte (per la gioia delle nostre mamme che
dovevano fare nottata con noi), gli scherzi, le battute. Durante il nostro primo lungo
ricovero di quasi 40 giorni abbiamo scritto una canzone, abbiamo riunito i medici e
abbiamo chiesto di farci uscire, eravamo stanche. Un giorno eravamo entrambe
ricoverate, ci siamo accorte che tutti i reparti dell’ospedale avevano una felpa che li
identificasse e, notando che il nostro era uno dei pochi reparti senza, le abbiamo ideate.
Creandole abbiamo potuto distrarre i nostri pensieri dalle continue paure e
preoccupazioni e così dopo mille idee, scarti e suggerimenti ora una felpa rossa è
indossata da tutto il personale dell’oncoematologia pediatrica. Io ed Anna quel reparto
l’abbiamo un po’ rivoluzionato, abbiamo cercato di rompere quel silenzio assordante che
senti lì dentro. Anna oggi è una bellissima stella, una delle più luminose, ma insieme
abbiamo iniziato tanti progetti che ad oggi piano piano hanno preso o stanno prendendo
vita anche grazie ad AGEOP, associazione che segue i bambini, ragazzi e le loro famiglie
durante questi brutti periodi. Tutto questo per rendere quei lunghi ricoveri pieni non solo
di tristezza e paura ma anche di sorrisi e paradossale felicità, per rendere quelle mura
piene di vita e non di sopravvivenza.
Arriva un momento però in cui ti chiedi il “perché proprio a me?” perché quell’impotenza
e quella paura in un qualche modo devi riuscire a spiegartela. Purtroppo molto spesso
non c’è una spiegazione a tutto e quindi devi semplicemente fartene una ragione. Ma
secondo voi io a 18 anni potevo semplicemente accettare passivamente di aver avuto
due diagnosi di questo peso? Assolutamente no, e quindi l’unica era capirlo dal punto di
vista scientifico. Avrei potuto comprare riviste, leggere articoli invece ho scelto la strada
più lunga e complessa: dopo la maturità data in ospedale mi sono iscritta a medicina.
Una scelta per colmare questa mia curiosità ma soprattutto per saziare quell’impotenza
da sempre provata. Se penso alla Chiara dottoressa, però, voglio che sia una dottoressa
che si ricordi sempre di essere stata paziente. Il mio obiettivo è quello di essere medico,
non di fare il medico e trasferire così tutto quello che lo splendido personale sanitario ha
fatto con me in tutti questi anni. Ad oggi nulla è finito, faccio controlli regolari e non vi
nego che prima di ogni esame la paura torna ad essere tanta. Perché sì quell’impotenza
rimarrà a vita, resta una quotidianità della paura che a volte riesci a dominare ma a volte
diventa più pesante di te. Indubbiamente la mia è una storia importante, molte volte a 21
anni diventa ingombrante. Il mio passato è molto presente ma nel futuro a
quell’impotenza vorrei accostarci non più paura ma speranza.
Da una infermiera/operatore sanitario del S.Orsola:
Sono un’infermiera dal 1993, sono sposata e madre di tre figli e da circa 20 anni sono una
catechista della parrocchia di S. Rita di Bologna.
Per un breve periodo ho lavorato all’Ospedale Maggiore in un reparto di Malattie Infettive
con pazienti affetti da AIDS.
Dal 1994 sono al S. Orsola e dopo 10 anni di esperienza in Rianimazione Adulti, per
esigenze familiari e di salute, ho chiesto un part-time e quindi mi hanno spostato in
un’area ambulatoriale.
Inizialmente, dal punto di vista lavorativo, per me è stato un trauma, perché amavo
l’adrenalina che il tipo di attività in Terapia Intensiva mi faceva scorrere nelle vene, ma i
pazienti erano, nella maggior parte dei casi, incoscienti, quindi mancava il rapporto
personale con il loro vissuto, era un tipo di assistenza necessaria, indispensabile, ma
puramente “corporale” (perdonatemi il termine un po’ brutale).
Quando invece ho iniziato a lavorare negli ambulatori ho pian piano cominciato ad
apprezzare il fatto di poter “comunicare” con i pazienti e mi sono accorta di quanto
questo sia importante per loro, ma mi sono anche accorta di quanto questi pazienti
vengano poco considerati, tanto da essere chiamati “utenti”.
Negli ambulatori non si ha a che fare con pazienti allettati, di cui si hanno sicuramente
alcune informazioni in più, almeno per quanto riguarda la storia clinica.
Negli ambulatori si incontrano molte persone, spesso accompagnate e a volte si fa perfino
fatica a capire chi sia il paziente e, oltre al nome e cognome, alla data di nascita e al
motivo per cui sono venuti, non si conosce altro.
Questo non preclude però che dietro questi pazienti, che come già detto vengono
chiamati “utenti”, non ci siano gli stessi bisogni dei pazienti ricoverati, anzi, spesso si
nascondono difficoltà inimmaginabili: solitudine, difficoltà ad assumere le terapie
domiciliari, presenza in famiglia di disabilità, difficoltà economiche, e tanto altro.
Io incontro i pazienti per pochi minuti, al massimo per mezz’ora, ma non è il tempo che
conta, è la qualità di quelle due parole che si riescono scambiare.
Basta un niente, un sorriso, una parolina e loro si aprono come se ti conoscessero da
sempre e
in quei pochi minuti sono in grado di raccontare l’intera loro vita, i loro problemi, la
preoccupazione per la malattia, il dolore per la perdita di una persona cara, il timore per il
futuro … A noi non viene chiesto altro che “ascoltare” ed è per me disarmante quando
spesso, andando via, mi chiedono scusa per avermi fatto perdere tempo con le
“chiacchiere”!
Alcune volte poi, mentre mi muovo lungo i numerosi corridoi, vedo persone con lo sguardo
smarrito, perso, non capiscono dove devono andare, cosa devono fare, allora chiedo loro
se hanno bisogno di aiuto e cerco di non limitarmi a dare loro delle indicazioni tipo: “Vada
a destra, poi a sinistra, trova una porta, la oltrepassi, poi vada di nuovo a destra, poi trova
un corridoio” o peggio ancora non dico loro: “Vada avanti e poi chieda a qualcun altro”;
preferisco invece accompagnarli personalmente e la gioia per me è immensa quando, con
i loro ringraziamenti, mi fanno sentire come se avessi compiuto una cosa straordinaria,
fuori dal comune; eppure, cosa ho fatto di così speciale? Niente, li ho semplicemente
accompagnati! Cosa ci costa fare un’opera così semplice?
D’altronde, quando giunse la sera e per le persone che erano accorse ad ascoltare Gesù
era arrivata l’ora di cena, Gesù non disse agli Apostoli “Dite loro di andarsi a comprare da
mangiare, che ognuno si arrangi per conto proprio”, ma disse “Voi stessi date loro da
mangiare” (Lc 9, 10-17).
E’ a questo che siamo tutti chiamati, in prima persona, a prenderci cura dei “fratelli più
piccoli” (Mt 25, 40).
Certo, troppo spesso le molte attività da fare, ci portano a trascurare il rapporto con i
pazienti, si pensa alla manovra infermieristica o medica da fare e non alla persona, ma in
fondo, mentre si esegue, ad esempio, un esame strumentale, un’ecografia o altro, cosa ci
costa regalare un sorriso o tenere una mano per infondere vicinanza e sicurezza?
Come ha detto un mio collega, ora in pensione, noi operatori sanitari facciamo il lavoro più
bello del mondo perché veniamo pagati per fare del bene!
Però, troppo spesso non ce ne rendiamo conto, siamo presi, come già detto, dalle “cose
da fare” e trascuriamo la “parte migliore”, così come Marta, presa dalle faccende
domestiche; dovremmo invece fare come Maria, che ascolta ai piedi di Gesù, che ha
scelto la parte migliore che non le sarà tolta (Lc 10, 38-42); e dov’è che noi possiamo
incontrare Gesù se non nei sofferenti, nei poveri, e dov’è che possiamo ascoltarlo se
non nelle tante persone sole, malate, che hanno sì, bisogno di curare il corpo, ma hanno
altrettanto bisogno di curare “lo spirito, l’anima”.
“Ascoltare”, questo verbo così “scontato”, tanto “sfruttato” quanto “sottovalutato”, ma
sappiamo davvero cosa significa “ascoltare”?
Non lo so, io mi sono fatta la mia idea: per me “Ascoltare” le persone malate, gli anziani, i
poveri, i sofferenti, è come ascoltare le pagine del Vangelo.
Non ho la presunzione di dire che sono in grado di farlo, ma, con l’aiuto dello Spirito
Santo, provo a mettercela tutta.
Olita
Da un’infermiera e malata oncologica:
La sofferenza ha varie sfaccettature.
Da oltre 35 anni come infermiera mi confronto quotidianamente con la malattia, con la sofferenza che ne deriva e con la non sempre immediata e scontata accettazione che ne dovrebbe conseguire.
Tutto questo lo affronto in un reparto molto critico, rianimazione (per anni ho lavorato anche nella emergenza extra-ospedaliera). Non mi abituo a vedere vite sospese e lacerate da lesioni fisiche spesso permanenti, derivanti principalmente da gravi incidenti stradali o sul lavoro.
Non mi abituo a osservare gli sguardi spaventati, smarriti, di coloro che si svegliano lentamente da un coma farmacologico o patologico, con gli occhi che fissano il soffitto del reparto, senza poter parlare a causa dei vari presidi medici che gli bloccano la parola e limitano i movimenti, ma che gli garantiscono le funzioni vitali quali il respiro e il battito cardiaco.
Non sanno ciò che gli è successo, non ne hanno la consapevolezza. Allora, nel ricercare con il loro sguardo visi a loro famigliari, incontrano il nostro, quello di noi infermieri che in tutto sappiamo provvedere e si prendiamo cura di loro.
Fondamentale diventa così il saperli confortare, fornirgli una breve spiegazione dell’accaduto e di dove si trovano . usare un tono di voce rassicurante, saper toccare il loro corpo con il dovuto tatto e rispetto assieme alle non meno importanti competenze professionali, aiuta la persona malata ad acquisire lentamente una fiducia nelle cure per un recupero della speranza di guarigione.
Occorre saper dare speranza e supporto anche alla famiglia e ai cari che gravitano attorno alla persona malata, presenze essenziali e preziose nel percorso di cura.
La malattia può ahimé portare anche alla morte, e in alcuni casi può diventare una occasione di “rinascita” per altre persone malate. Mi riferisco a coloro che in vita hanno deposto la volontà di donare i propri organi e tessuti a persone gravemente malate. le famiglie della persona deceduta riferiscono di aver trovato “sollievo” da tale dono al di là del proprio credo religioso.
Ho vissuto la sofferenza anche nella veste di persona con malattia oncologica e di aver affrontato e concluso con successo un lungo percorso di terapie di due anni. In quei mesi ho percepito, sulla mia pelle e nel mio cuore, la pesantezza di una diagnosi dura e cruda, delle lunghe e gravose terapie, la sofferenza del sopportare gli effetti collaterali di farmaci salvavita, ma che ebbero la prerogativa di aver tolto ogni giorno le mie energie. Ho pure avuto angustia nell’aver fatto preoccupare e soffrire anche i miei figli e i miei cari
Ho constatato con grande amarezza e delusione che tale malattia ha potuto spaventare e generare blocchi comunicativi fra alcune amicizie, diventando così il pretesto per non starmi vicino nemmeno con una parola di conforto e di allontanarsi da me. Questo mi ha generato inizialmente delusione e frustrazione , ma con il tempo ho apprezzato e valorizzato invece chi ha saputo stare con me nonostante il tumore. nel pieno della mia malattia ho conosciuto persone straordinarie, incuranti della mia malattia, soprattutto nell’essermi avvicinata con più dedizione alla fede cristiana, di aver conosciuto e iniziato a frequentare l’Associazione UNITALSI: aiutare chi soffre più di te e da più tempo, ti dà conforto e ti fa sentire meno malato.
Solo il vero amore che è custodito nei sani rapporti famigliari e di amicizie speciali aiutano il sofferente ad affrontare e superare qualsiasi burrasca.
La malattia ti fa sentire su una piccola barca in mezzo ad un mare tempestoso: se ti arrabbi costantemente contro il destino e ti compiangi, non riuscirai ad uscirne facilmente indenne.
Ad un certo punto devi reagire ed affidarti e saper cogliere gli strumenti giusti per tornare a riva: fidarsi dell’equipe che ti cura, apprezzare il sostegno e il conforto di coloro che ti vogliono bene, e constatare che non sei l’unica persona che soffre. Saper ascoltare, saper osservare, saper offrire una parola, un gesto, un sorriso a colui che sta facendo il viaggio simile al tuo, fa migliorare la giornata.
Concludo evidenziando che dalla sofferenza e nella sofferenza, si può e si deve imparare ad apprezzare il vero senso della vita, ma solo se il proprio cuore è aperto all’ascolto e alla proclamazione dell’ amore divino presente in ogni goccia di vita.
Patrizia Trevisani, infermiera
Di seguito alcune immagini della S.Messa presieduta dall’Arcivescovo di Bologna S.E. Card. Matteo Maria zuppi all’Ospedale Maggiore di Bologna e degli incontri suddetti: